Il nuovo governo italiano tra immigrazione ed economia
Il #GovernoDelCambiamento — come sostenitori e anche detrattori chiamano sui social media il nuovo esecutivo italiano — è finalmente partito e gode della tradizionale luna di miele che i cittadini tributano quasi sempre a chi si siede per la prima volta nella stanza dei bottoni e si accinge a guidare il paese. Ad oggi, l’azione del governo sembra essersi concentrata in particolare sul tema della sicurezza e dell’immigrazione, cercando di intestarsi il merito di una svolta rispetto all’azione dei precedenti esecutivi con una politica più “muscolare” che ha raccolto grandi consensi ma anche grandi critiche.
I mercati, tuttavia, restano in attesa di quali saranno le prime mosse del governo sui temi economici e in particolare quale sarà l’atteggiamento nei confronti dell’Unione Europea. Su questi aspetti, un primo banco di prova sarà costituito dall’aggiornamento del DEF, il documento programmatico di economia e finanza che costituisce il quadro all’interno del quale si muove la politica economica dell’esecutivo. Il governo Gentiloni aveva varato un documento a valori “tendenziali”, senza alcuna scelta politica, che dovrà ora essere aggiornato tenendo conto sia delle mutate condizioni macroeconomiche, sia delle decisioni e delle azioni di politica economica che si intendono intraprendere.
Nei giorni scorsi è stata votata dal parlamento la risoluzione di maggioranza sul DEF, che impegna il governo a disinnescare gli aumenti IVA che scatterebbero con le cosiddette “clausole di salvaguardia” e ad aprire una negoziazione con l’Unione Europea chiedendo maggiori spazi di flessibilità di bilancio, “nel rispetto degli impegni europei”, per il triennio 2019–2021. Secondo alcuni commentatori, l’obiettivo sarebbe quello di ottenere dalla UE lo slittamento di un anno del pareggio di bilancio, fissato ad oggi per il 2020. In ogni caso, l’approccio della maggioranza e dell’esecutivo sui temi economici è apparso più conciliante rispetto alle promesse elettorali; in particolare, il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha delineato in più occasioni un percorso di politica economica in sostanziale continuità con l’azione dei governi precedenti, sottolineando la necessità di ridurre il peso del debito pubblico, di rivedere la spesa corrente per liberare risorse per gli investimenti e accrescere la competitività del sistema produttivo italiano.
Insomma, non certo un programma “incendiario”, che punta probabilmente a rassicurare gli investitori internazionali e gli altri paesi europei. Il problema è che — come ha riconosciuto lo stesso ministro — il quadro congiunturale è meno favorevole di qualche mese fa e rischia in prospettiva di peggiorare ulteriormente: pesano sulla crescita globale i protezionismi che stanno salendo prepotentemente alla ribalta, il prezzo del petrolio lentamente salito da circa un anno a questa parte e le politiche monetarie sempre meno espansive, oltre alla difficoltà di alcuni paesi emergenti alle prese con una ritrovata forza del dollaro. Nel nostro caso, inoltre, pesa anche lo “spread” sui tassi d’interesse, che si è attestato nelle ultime settimane tra 200 e 250 punti base e che aumenta l’onere dell’emissione di nuovo debito per le casse dello stato.
In conclusione, il rischio è che al rientro delle ferie estive il governo si trovi a dover tappare i buchi nelle finanze pubbliche derivanti non solo dal disinnesco delle clausole di salvaguardia, ma anche dalle minori entrate e dalle maggiori uscite che derivano dal rallentamento dello scenario economico e dai maggiori oneri per il servizio del debito, proprio quando sperava invece di poter negoziare con l’Unione Europea il reperimento delle risorse necessarie per iniziare a finanziare il vasto programma elettorale previsto dal contratto di governo. Questo potrebbe essere il primo vero banco di prova per il nuovo esecutivo.