I mercati tra ritorno della volatilità e crescita sincronizzata.
Bastava guardare il grafico dell’indice Standard & Poor’s 500, il termometro della borsa statunitense, che nel 2017 non aveva fatto altro che salire, quasi senza soluzione di continuità, proseguendo una tendenza che dura ormai da nove lunghi anni.
Oppure analizzare l’indice VIX, la volatilità attesa del mercato azionario USA, l’indice della paura, come lo definiscono in maniera un po’ sensazionalistica i giornali, passato da un livello medio di 15,6 punti nel triennio 2014–2016 a 11,1 punti nel 2017, su una scala nella quale i valori più elevati segnalano le turbolenze di mercato e quelli meno elevati i periodi di calma piatta.
Insomma, la correzione che ha investito i mercati finanziari all’inizio di febbraio non è giunta inattesa, a detta di molti, anche se ovviamente nessuno avrebbe saputo prevedere quando si sarebbe abbattuta. Quello che ha destato più sorpresa, semmai, è stata l’intensità della turbolenza, con l’indice VIX schizzato fino a 50 punti e l’indice Dow Jones Industrial che ha fatto registrare una perdita infragiornaliera superiore ai sei punti percentuali.
Anche le spiegazioni sulle presumibili cause della discesa destano qualche perplessità: il tutto sarebbe nato da un dato un po’ più forte del previsto sui salari americani, che potrebbe essere una spia di pressioni al rialzo dei prezzi, che dal canto loro costringerebbero la Federal Reserve ad accelerare il percorso di rialzo dei tassi pena il non avere sufficienti riserve di munizioni con le quali fronteggiare il pericolo dell’inflazione.
Più convincente il fatto che, su mercati in cui dominano gli investimenti algoritmici, bruschi movimenti degli indici possano essere amplificati da meccanismi decisionali automatici che si innescano al modificarsi di determinate condizioni di volatilità o di correlazione, in una riedizione 2.0 di quanto accadde a Wall Street nel famoso “lunedì nero”, quando gli antesignani dei roboadvisor odierni fecero crollare la borsa con una raffica di ordini in vendita a cui i mercati non erano preparati.
Sul dopo-correzione, invece, le analisi si dividono. Da un lato gli Ottimisti puntano il dito sulla ripresa sincronizzata dell’economia, con condizioni di crescita in accelerazione e sopra la media che non si registravano con una tale ampiezza e copertura geografica dal 2004 secondo gli indicatori elaborati da Oxford Economics.
Inoltre è vero che le banche centrali progressivamente normalizzeranno le politiche monetarie, ma lo faranno gradualmente, non all’unisono e comunicando con largo anticipo ai mercati le loro intenzioni: i tassi, insomma, non dovrebbero subire eccessivi scossoni e lo scenario rimane sostanzialmente inalterato rispetto al 2017, che si è concluso così bene. Vero — ribattono i Pessimisti — ma l’inflazione, in particolare quando tocca la componente salariale, tende ad autoalimentarsi, con una progressione che può facilmente accelerare.
Inoltre, il ciclo economico americano è stato fin qui insolitamente lungo e rischia facilmente di deragliare, sebbene ancora non si vedano segnali di recessione. Infine, raramente i rialzi di volatilità sui mercati si presentano come episodici: più spesso, modifiche radicali nella variabilità degli indici sono seguite da ulteriori picchi, eventualmente di minore intensità.
Tra queste due posizioni, è probabilmente saggio adottare un punto di vista intermedio: effettivamente, lo scenario economico raramente è sembrato così favorevole agli investimenti, in particolare azionari; tuttavia, è probabile che rispetto al 2017, l’anno in corso si possa caratterizzare per una volatilità più marcata dei titoli e degli indici, frutto delle maggiori incertezze che si sono qui brevemente tratteggiate.
La raccomandazione rimane quindi quella di valutare gli investimenti su un orizzonte di medio — lungo termine, facendo riferimento ai propri obiettivi, alle proprie necessità finanziarie e alla propensione al rischio. Questa è, del resto, l’ipotesi su cui poggia tutto l’impianto della normativa dei Piani Individuali di Risparmio (PIR), che favoriscono proprio, attraverso le agevolazioni fiscali, il graduale ingresso del risparmio sui mercati e la detenzione dell’investimento su un orizzonte temporale ragionevolmente esteso.