Negli ultimi due anni, l’Europa è stata considerata “il buco nero” dell’economia mondiale, l’ostacolo principale alla ripresa e alla crescita dopo la crisi finanziaria del 2008. In effetti, la crisi dell’euro e del debito sovrano dapprima e la recessione in cui sono successivamente sprofondati i paesi dell’area, a partire da quelli cosiddetti “periferici”, hanno pesato sulle statistiche economiche globali.
Da qualche mese, tuttavia, le previsioni sul futuro prossimo dell’Europa sono tornate ad essere un po’ più ottimistiche. I primi segnali sono giunti dai leading indicators – gli indici anticipatori – quali ad esempio i PMI. Questi indici, basati su sondaggi condotti presso i responsabili degli acquisti di grandi imprese, hanno storicamente mostrato un’elevata correlazione con l’andamento delle principali variabili economiche: PIL, livello d’inflazione, livello d’occupazione. A luglio, l’indice PMI del settore manifatturiero per la zona euro è salito per la prima volta oltre la soglia dei 50 punti che separa convenzionalmente le fasi espansive da quelle recessive esattamente due anni dopo la sua discesa sotto tale limite. Ad agosto, invece, è toccato all’analogo indice PMI per il ben più vasto settore dei servizi superare nuovamente la soglia dei 50 punti.
Non è stata quindi una completa sorpresa, anche se è stata senza dubbio una buona notizia, la pubblicazione a metà agosto del dato di variazione del PIL per la zona euro nel secondo trimestre 2013, che è finalmente tornato ad essere positivo, dopo diciotto mesi di contrazione, con una crescita su base trimestrale dello 0,3%. Disaggregando i dati, qualche sorpresa in più: la migliore variazione positiva è stata quella del Portogallo (+1,1%), seguito da Germania (+0,7%) e Francia (+0,5%), mentre chiudono questa classifica con un indice ancora in declino l’Olanda (-0,2%) e purtroppo l’Italia (-0,2%). La narrativa “centro vs. periferia” sembra quindi aver ceduto il passo ad uno scenario un po’ più complesso, nel quale confluiscono elementi strutturali e anche qualche risultato delle misure approntate in questi anni per combattere la crisi.
Indubbiamente, non basta un solo dato positivo, pur se conclusione – nel caso degli indici PMI – di un trend ascendente che dura da circa un semestre, per proclamare la guarigione dell’Europa. Tanto più che alcuni analisti evidenziano congiunture favorevoli ma difficilmente ripetibili che potrebbero aver contribuito alla ripresa del PIL dell’area euro: un balzo di oltre il 15% nella produzione continentale di auto – dato mai registrato in precedenza – e un incremento nei consumi interni in Germania e in Francia che però controbilancia le spese sotto la media effettuate nel corso del primo trimestre. Nel caso della Francia, inoltre, la variazione positiva del PIL è stata più ampia di quanto ipotizzato dall’analisi degli indici anticipatori: oltre alla crescita dei consumi, sono cresciute anche le scorte, che potrebbero però ridursi nei prossimi trimestri se la domanda interna non continuasse a mantenersi robusta.
Detto ciò, intravedere segnali di crescita dell’area euro anche nei dati dell’economia reale è certamente positivo e consente maggiore ottimismo anche sul miglioramento di quelle variabili tradizionalmente ritardatarie come l’occupazione, che si attivano dopo l’inizio della ripresa e che permetterebbero di stemperare un po’ gli attriti sociali che si percepiscono in alcuni paesi dell’area. Fermo restando che le difficoltà strutturali legate soprattutto alla dinamica del debito sovrano rimangono in attesa di una soluzione definitiva, che richiederà presumibilmente tempi lunghi e probabilmente alcune modifiche al patto sociale dei cittadini europei.
Dal punto di vista dei mercati finanziari, che hanno comunque largamente anticipato la possibile ripresa europea con il rendimento totale dell’indice EuroStoxx 50 a dodici mesi che supera il 15%, questi numeri significano uno spostamento dell’attenzione in termini di rischio dall’Europa ad altre aree che potrebbero essere colpite da uno scenario in mutamento, soprattutto per effetto del rialzo dei tassi d’interesse americani: in particolare, i mercati emergenti, che soffrono in questi giorni di importanti fuoriuscite di capitali legate proprio ad una mutata percezione del rischio rispetto ad economie storicamente sfavorite in momenti analoghi a quelli che si prospettano nel prossimo futuro.