Di Marco Bonifacio, Risk Manager di Zenit.
A margine del recente vertice di Malta tra i capi di governo europei, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha rilasciato alcune dichiarazioni che hanno fatto discutere, aprendo all’ipotesi di “un’Europa a differenti velocità”, nella quale non tutti i paesi “parteciperanno ai vari passi dell’integrazione europea”. Successivamente, ha chiarito che “non devono esserci club esclusivi, in cui alcuni non possano entrare”, ma se un paese dice “‘non voglio adesso, non voglio ancora venire là’, questo deve essere possibile”.
Da un certo punto di vista, le dichiarazioni della Merkel non sono particolarmente sorprendenti: l’Europa a più velocità è già una realtà, basti pensare all’accordo di Schengen sulla libera circolazione, non ratificato da tutti i membri, o alla stessa adozione dell’euro come moneta comune; addirittura, è previsto come principio nel meccanismo di “cooperazione rafforzata” stabilito dal Trattato di Amsterdam, in base al quale alcuni stati membri possono adottare misure di più stretta integrazione su temi non di competenza esclusiva dell’Unione senza coinvolgere la totalità dei paesi. Sul piano politico, tuttavia, le aperture della cancelliera tedesca sembrano dare un colpo mortale ad uno dei feticci dell’UE: l’unanimità nelle decisioni, sempre più complicata da ottenere man mano che il sodalizio si allarga e per questo sempre più accantonata, ma in varie occasioni ostacolo insormontabile nel processo di integrazione europea. Una sorta di “si va avanti con chi ci sta, senza aspettare che tutti siano d’accordo”.
Non a caso, la Merkel affronta questo tema in un momento in cui da un lato la popolarità dell’Europa è in calo in quasi tutti i paesi membri e ha dato spazio a formazioni politiche che propugnano, in varie forme, il ritorno alle “sovranità” nazionali o quanto meno una limitazione dei poteri delle strutture dell’Unione e dall’altro si trova a subire nei sondaggi elettorali interni una rimonta da parte del partito socialdemocratico che al contrario vorrebbe una maggiore integrazione e solidarietà a livello pan-europeo. Trait d’union di queste due posizioni per molti versi antitetiche tra loro è per l’appunto la sensazione che l’Unione sia sprofondata in una palude d’immobilismo e che solo un colpo d’ala politico possa rimettere in moto il sogno di un continente unito.
In Italia, la proposta Merkel è stata accolta in modo ambivalente: il governo si è detto subito disponibile a far parte di quella “coalizione dei volenterosi” ipotizzata un anno fa dal ministro delle finanze tedesco Schäuble, ma non sono pochi a temere che il nostro paese possa essere escluso da quella che inevitabilmente verrebbe percepita come un’Europa di serie A. L’economista francese Jean-Paul Fitoussi, ad esempio, pensa che il modello potrebbe avere successo solo se includesse i sei paesi fondatori dell’Unione, compresa l’Italia, mentre secondo il senatore Mario Monti riusciremo a far parte del gruppo di testa solo dimostrando “credibilità” e “affidabilità” nei confronti dei partner europei, ancor prima delle misurazioni di disavanzo, debito o efficienza dei controlli alle frontiere.
Il problema è che l’Italia, un tempo convintamente europeista, si è spostata progressivamente verso il campo “euro-scettico”: secondo l’ultimo Eurobarometro, il sondaggio della pubblica opinione continentale condotto periodicamente dalla Commissione Europea, il 30% degli italiani ha una visione negativa dell’Unione (contro un 32% di “positivi” e un 33% di “neutrali”), il 50% è pessimista sul futuro dell’UE e ben il 70% ritiene che la propria voce non conti nei confronti dell’Europa. In questo scenario alcune forze politiche hanno fatto proprie le istanze di più sicuro effetto per intercettare questo malcontento (“usciamo dall’euro, torniamo alla lira”), ma anche i partiti europeisti non hanno mancato di scaricare sull’Unione vere e presunte colpe e vincoli di bilancio posti all’azione di governo, alimentando in modo miope la protesta contro l’Europa.
In realtà, i nostri mali vengono da lontano: fin dagli anni Settanta la produttività italiana è progressivamente peggiorata, mostrando un percorso analogo a quello delle altre economie avanzate, ma con tassi di sviluppo più bassi, praticamente azzerati negli ultimi dieci / vent’anni; a tale deterioramento della produttività si deve buona parte della mancata crescita economica negli ultimi lustri. Chi ha indagato questo fenomeno ha individuato varie cause: ad esempio gli economisti Pellegrino e Zingales hanno puntato il dito da un lato verso l’impreparazione del tessuto industriale italiano, costituito per lo più da piccole imprese, a fronteggiare l’accresciuta competizione internazionale soprattutto da parte dei paesi emergenti, e dall’altro verso la difficoltà a sfruttare appieno i benefici della “rivoluzione digitale”, che in Europa ha fornito una spinta all’economia inferiore rispetto agli Stati Uniti e in Italia in particolare. Indagando quest’ultimo punto, i due economisti mettono in evidenza il ruolo giocato da meccanismi poco meritocratici nella selezione dei dirigenti e da uno scenario che vede il nostro paese in ritardo rispetto alla media delle nazioni industrializzate in tema di corruzione, certezza del diritto, capitale umano e istruzione.
A fronte di questo quadro, che impone una profonda rivisitazione del modello economico italiano e la necessità di riforme che coinvolgano il sistema di formazione, il mercato del lavoro, i meccanismi amministrativi e burocratici, il funzionamento della giustizia, vi è la tentazione di ricercare una qualche scorciatoia o di ammorbidire i vincoli esterni che sembrano aver irrigidito l’economia negli ultimi anni. In questa direzione vanno ad esempio le ipotesi di “uscita dall’euro”, che nelle intenzioni dei proponenti dovrebbero alleggerire il peso del debito pubblico, via monetizzazione, e rilanciare l’economia attraverso una sorta di svalutazione competitiva. Tuttavia, anche gli studi più favorevoli a queste ipotesi sembrano concludere che i vantaggi sul debito pubblico sono dubbi, mentre l’impatto sul debito privato e in particolare sul sistema bancario potrebbe essere sensibilmente negativo; quanto alle svalutazioni competitive, il rischio è di replicare, su scala possibilmente amplificata, un nuovo Novantadue che non ebbe effetti particolarmente positivi sul sistema industriale, come dimostra il caso del settore automobilistico.
La strada maestra per il rilancio dell’economia italiana passa attraverso un percorso di riforme di medio-lungo periodo, negoziando di volta in volta con i partner europei la flessibilità necessaria per effettuare gli investimenti richiesti. Di fronte alla rinascita dei nazionalismi va peraltro ricordato che il mercato comune europeo prima e l’Unione Europea poi hanno assicurato al nostro continente il periodo di pace più lungo della sua storia millenaria. Come recita il noto aforisma attribuito a Frédéric Bastiat, “se le merci non possono attraversare i confini, lo faranno gli eserciti”.