A pochi mesi dall’introduzione dei Piani Individuali di Risparmio (PIR) in Italia, si può dire che i fondi comuni ad essi dedicati e gli altri strumenti finanziari che gradatamente stanno nascendo in ottemperanza alla normativa hanno incontrato i favori del pubblico dei risparmiatori.
Alla fine del primo trimestre 2017, ad esempio, Assogestioni, l’associazione che riunisce le Società di Gestione del Risparmio (SGR) operanti in Italia, riportava nella sua Mappa Trimestrale del Risparmio Gestito che i fondi PIR avevano raccolto dall’inizio dell’anno più di 1 miliardo di euro, suddiviso in 400 milioni su fondi di nuova istituzione e quasi 700 milioni su fondi preesistenti. Il patrimonio complessivo di tali fondi sfiorava i 2 miliardi di euro: 400 milioni per i fondi di nuova istituzione e oltre 1,5 miliardi per i fondi preesistenti. Numeri importanti, che hanno fatto rivedere al rialzo le stime elaborate originariamente dal Ministero dell’Economia: se prima i tecnici del dicastero si attendevano una raccolta complessiva sugli strumenti PIR tra i 16 e i 18 miliardi di euro in cinque anni, ora le previsioni sono più ottimistiche e parlano di un flusso netto di 10 miliardi solo per quest’anno, con impatti di rilievo sulle imprese destinatarie dei fondi già a breve termine.
Il successo di questi strumenti ha però sollevato qualche dubbio sulla capacità del mercato finanziario italiano di assorbire queste risorse aggiuntive senza la generazione di una “bolla”, ossia di valutazioni aziendali eccessive e insostenibili nel lungo termine per effetto di una liquidità vincolata a determinati investimenti. Come è noto, infatti, la normativa PIR prevede che almeno il 21% del patrimonio degli strumenti soggetti a tale norma (ossia, il 30% del 70% riservato a investimenti in Italia) siano da destinare a titoli non appartenenti ad un indice primario, per l’Italia il FTSEMIB. Proviamo allora a capire quanto sono fondati tali timori, limitando la nostra analisi al mercato azionario (anche se — giova ricordare — la Mappa di Assogestioni ci informa che al 31 marzo 2017 solo il 30% dei fondi PIR erano azionari puri, il 46% erano flessibili e un 20% bilanciati: insomma, una parte non irrilevante delle risorse raccolte sarà comunque destinata al mercato obbligazionario).
Escludendo l’indice FTSEMIB (sul quale comunque i fondi PIR possono investire la maggior parte del proprio patrimonio), per la quota che la normativa riserva ai titoli non facenti parte di un indice primario rimangono: l’indice FTSE Italia Mid Cap (i 60 titoli per capitalizzazione che seguono gli strumenti appartenenti al FTSEMIB), l’indice FTSE Italia Small Cap (che comprende i restanti titoli del listino ordinario), l’indice FTSE AIM Italia (che include i titoli appartenenti al mercato AIM, con requisiti semplificati rispetto al listino ordinario) e l’indice FTSE Italia STAR (segmento trasversale alle mid e small cap che raggruppa una selezione di titoli con alti requisiti in termini di trasparenza, liquidità e governance). Vediamo qualche numero nel dettaglio per ciascuno di questi indici.
Innanzitutto, la capitalizzazione: il listino italiano (escluso l’AIM) nel suo complesso assomma a circa 600 miliardi di euro (dati al 23 giugno 2017): poco meno di 500 miliardi sono rappresentati dalle blue chips dell’indice FTSEMIB, le mid cap sfiorano i 100 miliardi, mentre il resto del listino (small cap) totalizzano poco più di 15 miliardi di euro. Un miliardo è la capitalizzazione complessiva dei titoli dell’AIM, mentre lo STAR raggruppa azioni che valgono insieme circa 40 miliardi di euro. Sembra di poter dire che, in termini di capitalizzazione, l’impatto degli strumenti PIR possa essere rilevante innanzitutto sui titoli dell’AIM e più in generale sulle small cap.
In termini di valutazione, invece, il listino nel suo complesso presenta un rapporto tra prezzo e valore di libro (P/B) pari a 1.18, contro una media dal 2009 di 0.94: le blue chips hanno un P/B pari a 1.14 contro una media di 1.30; le mid cap sono un po’ più “care” con un P/B di 1.66 rispetto alla media di 1.04 e le small cap, generalmente caratterizzate da una minore redditività, appaiono le meno “care” con un P/B di 0.82 contro una media di 0.95. I titoli dell’AIM, che hanno minori requisiti di reporting, presentano un P/B di 1.79 contro una media storica (limitata però agli ultimi tre anni) di 1.43; mentre il segmento STAR — il fiore all’occhiello della piccola e media impresa italiana — fa registrare un P/B di 2.20 rispetto ad una media di 1.48. In questo caso, i titoli dello STAR appaiono “cari”, ma è pur vero che negli ultimi anni hanno attirato l’attenzione e i capitali degli investitori esteri in misura maggiore rispetto agli altri segmenti, a differenza dell’AIM, dove operano quasi esclusivamente intermediari domestici.
Infine, in termini di controvalore negoziato — escludendo che la nuova raccolta degli strumenti PIR abbia potuto impattare sul listino nel suo complesso o sull’indice FTSEMIB — per l’indice delle mid cap l’incremento di volume medio mensile scambiato tra il 2016 e i primi mesi del 2017 è stato pari a circa il 20%, mentre per l’indice delle small cap la variazione è stata nell’ordine del 33%. Più consistente l’incremento sui titoli del segmento STAR (+75% circa), mentre sul mercato AIM si è arrivati a una crescita dei volumi superiore al 150%. Anche ragionando sui volumi, quindi, l’eventuale impatto degli strumenti PIR sembra aver toccato innanzitutto l’AIM e in secondo luogo il segmento STAR.
Da questa breve analisi dei diversi segmenti del mercato azionario italiano emerge con evidenza che sono in particolare i titoli a piccola capitalizzazione e soprattutto quelli del mercato AIM, su cui operano quasi esclusivamente intermediari domestici, le emissioni che potrebbero subire maggiormente un “effetto liquidità” derivante dalla nuova normativa. Nello stesso tempo, proprio la disponibilità di fondi vincolati alle emissioni delle piccole e medie imprese, unita ad altre facilitazioni, potrebbe costituire un’opportunità di crescita del mercato azionario italiano nei prossimi anni. E l’AIM, con le procedure semplificate di quotazione, potrebbe essere uno dei principali beneficiari di nuovi approdi in borsa con una conseguente maggior diversificazione dell’offerta disponibile per gli strumenti PIR che eviti un’eccessiva concentrazione su pochi titoli foriera di un’eventuale “bolla”. Insomma, la scommessa per i prossimi anni sulle piccole aziende quotate italiane è che si riesca a stabilire un nuovo equilibrio tra domanda e offerta di capitali, allargando il mercato di riferimento come d’altra parte era ed è nelle intenzioni della nuova normativa.
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