Di Marco Bonifacio, Risk Manager di Zenit.
20 gennaio 2017: data dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca come 45° presidente degli Stati Uniti d’America. L’elezione di Trump è stata l’ultimo colpo di scena politico del 2016: dopo aver sovvertito tutti i pronostici nelle primarie repubblicane, il magnate statunitense ha conquistato la presidenza contro una candidata, Hillary Clinton, che sulla carta aveva tutti i titoli per trionfare. Non ci soffermeremo qui sulle polemiche che hanno seguito la vittoria di Trump: basti dire che raramente un presidente eletto è apparso tanto divisivo, pur nella progressiva polarizzazione da cui non è rimasta immune la politica americana. Né sulla sensazione di deja-vu che noi italiani possiamo aver provato di fronte alla discesa in campo di un imprenditore molto ricco, non scevro da conflitti d’interesse e praticamente digiuno di politica: un parallelismo forse troppo facile per arrischiare un giudizio. È invece interessante provare a ragionare sui meccanismi che hanno portato Trump alla vittoria e sui riflessi anche simbolici della nuova Amministrazione.
Qualche tempo fa un economista della World Bank, Branko Milanovic, ha diffuso un grafico che tra gli addetti ai lavori è diventato celebre come “grafico dell’elefante” e che aiuta a comprendere non solo la vittoria di Trump, ma anche gli altri colpi di scena politici del 2016, a partire dalla Brexit. In questo grafico una linea che ricorda per l’appunto la sagoma di un pachiderma (parte da zero, si alza a formare una gobba, poi si abbassa e infine torna ad alzarsi con una sorta di proboscide) rappresenta la variazione del reddito reale della popolazione mondiale, divisa per decili, ossia per intervalli ordinati progressivamente, nel periodo 1998–2008. All’interno del primo decile la linea è bassa, prossima allo zero: sono gli strati più poveri della popolazione mondiale, che sono rimasti in uno stato di assoluta indigenza. Ma dal 10% al 70% l’incremento di reddito in quel decennio si fa significativo, toccando punte dell’80%: ossia, un buon 60% della popolazione mondiale ha visto migliorare in modo sostanziale la propria situazione economica. Un altro decile che è diventato più ricco è l’ultimo, ossia quelli che stavano già meglio di tutti, e fra questi il top 1% ha incrementato le proprie entrate fino al 60%. Invece quelli che hanno perso, almeno relativamente, nel gioco della redistribuzione della ricchezza globale sono i decili tra il 70% e il 90%, che hanno visto crescere di pochi punti percentuali il proprio reddito e in alcuni casi sono regrediti rispetto alla situazione iniziale e che, in buona approssimazione, coincidono con le classi medie occidentali. Insomma, il grafico fotografa bene una situazione nota: la globalizzazione ha aumentato il benessere mondiale, ma in modo diseguale, favorendo i ceti più elevati e permettendo la nascita di una classe media in molti paesi emergenti, ma penalizzando larghi strati della popolazione europea e americana.
Di fronte a questo impoverimento relativo, la classe media occidentale ha reagito ricercando un’offerta politica diversa, capace di arrestare se non di invertire il processo di trasferimento della ricchezza verso Oriente. Trump ha intercettato questa domanda: il suo slogan elettorale, “Make America Great Again” (“Rendiamo nuovamente grande l’America”) descrive perfettamente una proposta politica fortemente protezionista. Sembra funzionare: prima ancora del suo insediamento grandi aziende hanno fatto a gara nell’annunciare la cancellazione dei piani di trasferimento all’estero della produzione e nuovi investimenti sul suolo americano. Se poi queste scelte siano state dettate dal tentativo di ingraziarsi il nuovo presidente o non piuttosto dal fatto che meccanismi di riequilibrio economico rendono sempre più sottile il vantaggio competitivo dei paesi emergenti, dove il costo del lavoro è cresciuto molto più che in Europa o in America, difficile dire.
Infatti, meccanismi di riequilibrio erano e sono già all’opera: il commercio mondiale rispetto al PIL, che era cresciuto dal 25% degli anni Sessanta fino al 60% nel 2007, integrando sempre più nazioni in un interscambio globale sempre più libero, è rimasto pressoché inalterata nell’ultimo decennio e negli ultimi anni è leggermente declinato sotto quota 60%. E se è vero che gli anni dal 1998 al 2008 hanno visto l’affermazione dei paesi emergenti, testimoniata anche dalla migliore performance del relativo indice azionario rispetto al MSCI World, nel periodo successivo quest’ultimo si è preso la rivincita, con un risultato stellare proprio di Wall Street e della borsa americana. Cosa è successo? Semplicemente, le imprese americane hanno saputo volgere a proprio vantaggio i meccanismi della globalizzazione, delocalizzando la produzione, ma mantenendo sul suolo patrio la creazione di valore aggiunto e macinando così anni di profitti record. Trump si prefigge di mettere un sassolino in questi ingranaggi, riportando la produzione in America; il suo elettorato si attende appunto questo. L’impressione — sia che egli riesca, sia che fallisca — è che come talvolta accade la politica arrivi un po’ tardi e che siano gli stessi meccanismi economici che hanno fatto trionfare la globalizzazione a segnare questa battuta d’arresto, con l’ingresso in una fase di relazioni internazionali più attenta ai riflessi domestici e meno propensa ai trattati multilaterali.
Resta però il fatto che l’elezione di Trump segna almeno simbolicamente l’inizio di una prima ondata di riflusso di quel complesso fenomeno chiamato globalizzazione che era sembrato inarrestabile; con questo mutato scenario ci troveremo a fare i conti nel prossimo futuro anche per quanto riguarda i mercati finanziari.